Seducente, erotico, affascinante. Un autoritratto geniale. Dalla psicanalisi alla fellatio, dall’ossessione per le forme molli, alle rocce tipiche dei dintorni di Cadaqués. E poi cavallette, simboli fallici, note autobiografiche e citazioni colte, da Bosch ai Preraffaelliti. Su tutto un’immensa capacità tecnica e visionaria…
La produzione migliore di Salvador Dalì (protagonista fino al 16 gennaio di un’importante retrospettiva a Venezia) è sconcertante e seduttiva, incalzante seppur dalle atmosfere rarefatte, di un realismo limpido – dovuto alla sorprendente capacità del maestro di rendere gli effetti della luce sulle superfici -, ma al contempo proiezione di una dimensione del tutto improbabile, irreale.
Il grande masturbatore (1929) si avvale di tutte queste peculiarità e può essere considerata una delle sue opere più intense e geniali, sebbene tra le più deliranti. E’ parte di una serie di pezzi di estremo potere allucinatorio, fondati su destabilizzanti “deformazioni onirico-paranoiche” (E. Crispolti, da Il Surrealismo, Milano, 1969) e prodotti in prevalenza tra il finire degli anni ’20 e l’inizio dei ’30.
Dalla complessa iconografia barocca, questo capolavoro anticipa l’interesse dell’artista per le strutture molli, una sorta di ossessione che molto ha a che vedere con quelle forme eroticamente seduttive dell’Art Nouveau delle quali egli scrive, pochi anni più tardi, in un testo dedicato all’arte ornamentale (1931).
Il grande masturbatore serba in sé una buonissima parte del repertorio di motivi e metafore per immagini daliniane: le conchiglie, i sassi, la cavalletta (che qui ha il ventre in putrefazione e ricoperto di formiche nere brulicanti). Come suggerisce il titolo, si tratta di un dipinto dalle molteplici implicazioni sessuali, palesate da un tracciato di simboli fallici piuttosto espliciti: il pistillo della calla, teso e svettante, ma anche la lingua arrossata del leone africano (emblema dell’energia e del desiderio prorompente), che mira verso l’alto come ad alludere ad un’erezione. Quest’ultima è un’allegoria tutt’altro che scontata, però, se si considera che con la sua ritta criniera e le fauci spalancate il temibile felino ricorda una Gorgone distruttrice, nonché la concezione freudiana che vede proprio nella testa di Medusa la minaccia della castrazione.
La scena (omissis), che sembra voler ricondurre ad un atto di fellatio, traduce l’angoscia sessuale dell’autore. La coppia sospesa in uno stato di pietrificazione, ancora, strizza l’occhio a Beata Beatrix di Dante Gabriel Rossetti – sottendendo l’idea che vede nella dama preraffaellita l’incarnazione della paura e dell’avversione -, malgrado la figura femminile riporti anche al suo vissuto domestico: pare sia ispirata, difatti, ad uno specchio modernista appeso nella casa di famiglia.
Ne Il grande masturbatore si ritrovano entrambe le fonti primarie della narrazione di Dalì: i paesaggi della sua infanzia, contraddistinti perlopiù da altopiani desertici, nonché la donna che dopo averlo incontrato sceglie di stargli accanto per tutta la vita. Dapprima sposa del poeta Paul Eluard e amante di Max Ernst, Gala diviene subito indispensabile per Salvador. Sarà per lui dea, compagna, madre, complice, agente ed infermiera. Insomma, proprio come Gradiva guarisce il protagonista dell’omonimo romanzo jenseniano, lei lo salva dalla nevrosi e dalla sua presunta dipendenza dall’onanismo.
Il volto con la palpebra chiusa, che in realtà viene utilizzato – in modo piuttosto inflazionante – anche per riprodurre altri soggetti e personaggi (uno per tutti André Breton), è rivolto verso il terreno riarso, e il suo naso oblungo è poggiato al suolo. Studi recenti lo avvicinano ad un’immagine raffigurata in uno dei pannelli del trittico Il giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, nonostante l’artista sostenga di aver preso a modello una roccia di Capo Creus. Il rimando a masse rocciose informi (si osservi anche L’enigma del desiderio, del medesimo periodo), tuttavia, è palese. Si tratta di configurazioni, è possibile azzardare, comparabili in qualche modo alle creature ambigue rappresentate da svariati contemporanei (si pensi ai grumi carnosi di Patricia Piccinini, che ricordano l’incomparabile potenzialità delle cellule staminali), se non altro per uno degli assunti alla base, che Dalì apprezza in Edouard Monod-Herzen e che vede la natura come un agglomerato di forme possibili in incessante fermento (Principes de morphologie générale, 1927).
Sonia Gallesio
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