Warhol massmediatico. Warhol scienziato della comunicazione. Guru dei linguaggi mediatici che la società consumistica gli ha messo a disposizione, dalla fotografia al cinema, dalla moda alla musica, al diritto d’autore al marchio di fabbrica, alla pubblicità. Warhol pop e industrial. Warhol pittore e fotografo, cineasta e art director, filosofo e sociologo, stramondano ed esternatore. Warhol producer e manager, copy righter e new Yorker, inventore del concetto di factory e di un sistema di lavoro basato sulla collaboration. Warhol glamour, fashion e vintage. Warhol mito, culto, mentore, modello. Un prodotto made in Usa, esportabile in tutto il mondo come la Coca Cola e il rock. Uno stratega dell’arte tale da trasformarla in business, un re Mida che ha trasformato in oro tutto quello che toccava, comprese le persone. E se Warhol ha trasformato la pubblicità in un’espressione creativa d’autore, con tutte le carte in regola per riqualificarsi come arte, la stessa arte di Warhol ha preso in prestito lo spirito universale e macroscopico del messaggio pubblicitario, pensando in grande, all’ennesima potenza. Con Warhol, allora, l’arte diventa monumentale, smisurata, iper-creativo, stra-versatile, perché il padre della Pop art americana non badava certo alle dimensioni per dare sfoggio di tutte le sue irrefrenabili velleità creative.
Di Warhol, della sua personalità galattica e sempre attualissima – visto le innumerevoli operazioni espositive che si susseguono puntualmente tutti gli anni – rende conto la grande mostra alla Triennale di Milano dal titolo emblematico “The Andy Warhol Show”, aperta fino al 9 gennaio, curata da Gianni Mercurio e Daniela Morera, resa possibile grazie alla partecipazione di importanti collezioni e istituzioni pubbliche e private internazionali, tra le quali The Warhol Museum di Pittsburgh e The Andy Warhol Foundation di New York, che raccoglie smisuratamente 200 opere del geniale popartist con l’intento di rivelare il segreto del suo successo, e cioè che dietro la facciata delle immagini e dietro la superficie della pittura, Warhol è riuscito ad affermare un’estetica basata sulla comunicazione e sulla collaborazione tra lui e quanti gli sono stati vicino. Duecento contributi prestigiosi fatti di foto, opere grafiche, disegni – quelli giovanili appositamente realizzati come illustrazioni per le riviste di moda newyorkesi. Non mancano inoltre materiali di supporto, come le copertine di Interview, filmati, documentazioni di moda ed oggettistica, ordinati all’interno di un ampio apparato filologico che consente di avvicinare la complessa personalità dell’artista di Pittsburgh scomparso nel 1987 all’età di 59 anni. C’è tutta l’estetica di Andy Warhol condensata in questa mostra, una summa concettuale e visiva della mente visionaria e ambiziosa dell’artista. Si fluttua attraverso tutte le icone warholiane uniche e riconoscibilissime, ormai parte del patrimonio mentale e precognitivo dell’essere umano: il mito della triade capitolina bellezza-successo-potere, espresso dai ritratti di Marilyn, Liz Taylor, Elvis Presley, Jaqueline Kennedy, Mao; la visione del consumismo orchestrato tra Campbell’s Soup, Brillo Box, Dollar Sign; la strategia dell’advertising, la ripetizione seriale dell’immagine, i simboli tragici di catastrofi e morte, tutti raccontati attraverso Suicide, Electric Chair, Vesuvio, incidenti stradali; il bel mondo della factory affollato di volti, ritratti di artisti, dealers, stilisti, amici, personaggi del jet set dalla social life, all’underground. Volti noti tra cui Leo Castelli, Ileana Sonnabend, Keith Haring, Robert Mappelthorpe, Yves Saint-Laurent, Giorgio Armani, Caroline di Monaco, Gianni Agnelli, Dennis Hopper, Jane Fonda, Grace Jones e molti altri, a ricordare quel periodo “mondano” e glamour intrapreso da Andy Warhol durante il quale all’artista vennero commissionati ritratti da ogni parte del mondo e dalle più disparate categorie sociali di personaggi, purché facoltose. Ancora, a tentazione di un’arte di matrice astratta, fomentata dai Camouflage e dalle Shadows.
E gli anni delle Collaborations con Jean-Michel Basquiat e Francesco Clemente, l’amicizia con giovani belli e dannati come Keith Haring. L’avventure citazionista di The Last Supper, l’ultima serie di opere della sua vita presentate proprio a Milano, un mese prima della sua morte. Una rivisitazione a suo modo del capolavoro di Leonardo, l’ultima operazione emblematica della sua produzione, nella quale l’antico modello artistico è costruito in un numero infinito di varianti che mescolano il mezzo fotomeccanico e quello manuale, la pittura sacra con i simboli più profani del presente, l’unicità dell’opera d’arte con la sua infinita riproducibilità. Operazione, questa, che comunque prendeva spunto da una formidabile intuizione da art business man, qual era Warhol. Mentre, nell’86, “L’ultima cena” si trovava in restauro, preclusa per ancora molti anni a venire, al grande pubblico, Warhol offriva in sostituzione, per intrattenere l’attesa, una riproduzione serigrafia in grande formato. L’arte, la vita, l’idea vincente di Andrew Warhola, di padre immigrato cecoslovacco, nato in Pennsylvania, appassionato lettore di Dick Tracy e Vogue, che scelse New York e l’East Village di Manhattan come quartier generale per i suoi capolavori.
Fotografia, videointerviste, memorabilia. C’è anche tutto questo, quanto mai accessorio alle opere grafiche, ma certo molto immediato e personalizzato. La fotografica ha un suo peso in questa rassegna. Immagini di Peter Beard, Ronnie Cutrone, Fred W. McDarrah, Christopher Makos, Billy Name, Gerard Malanga, Patrick Mc Mullan, Tsen Kwong Chi, Mario Schifano, David McCabe, Victor Bokris, Anton Perich, Maripol, Maria Mulas, Edo Bertoglio. Non mancano ovviamente foto realizzate dallo stesso Warhol. Tra i materiali filmati, c’è anche il documentario di Daniela Morera, dove appare in esclusiva la vendita all’asta delle collezioni dell’artista, oltre ad un intervento di Lana Jokel che intervista un Warhol insolitamente loquace.
Spiccano anche brani tratti da Andy Warhol TV e Factory Diaries per terminare con un video dell’artista Tracey Moffatt. Il percorso si arricchisce, con la sezione Fashion and Style, di disegni e sculture pre-pop realizzate negli anni ’50, quando il giovane Warhol era appena approdato a New York e si guadagnava da vivere come illustratore, grafico e vetrinista. E, poi, i suoi abiti, accessori e tessuti ispirati all’iconografia warholiana. Icona-feticcio non poteva che essere una delle sue celeberrime parrucche, la silver wig.
The Andy Warhol Show, dal 21 settembre al 9 gennaio 2005, Triennale. Via Alemagna, 6, Milano. La mostra è curata da Gianni Mercurio e Daniela Morera, e realizzata in collaborazione con Chrysler.
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